Come dicevo nel post di ieri, in cui trovate un’introduzione al Cavaliere inesistente e ai Nostri antenati, ho voluto ricordare Italo Calvino a trent’anni dalla sua morte parlando di un libro che adoro e che mi ha avvicinato, quando ancora ero bambina, a uno dei più grandi scrittori mai esistiti (ma non dimentichiamoci che fu anche il responsabile dell’Ufficio Stampa della casa editrice Einaudi).
All’origine di ogni storia di Calvino c’è un’immagine che gli gira per la testa, e che solo scrivendo si sviluppa in una storia. “Sono le immagini stesse che sviluppano le loro potenzialità implicite, il racconto che esse portano con sé”. Man mano che scrive la storia però, è la parola scritta a prendere le redini, fino a diventare sempre più decisiva: “sarà la scrittura a guidare il racconto nella direzione in cui l’espressione verbale scorre più felicemente, e all’immaginazione visuale non resta che tenerle dietro” (Italo Calvino, Lezioni americane, Oscar Mondadori, Milano 2011, pp. 90-91).
L’immagine che dà vita al Cavaliere inesistente, un’armatura vuota che cammina e agisce con grande razionalità, si identifica a poco a poco durante la stesura della storia con un nodo di riflessioni che gli turbinano in testa: Calvino si trova in un periodo storico in cui l’individualità è negata, l’uomo è ridotto a “un’astratta somma di comportamenti prestabiliti”, proprio come Agilulfo, a cui sono negati la dimensione corporale, le passioni, gli istinti, i sentimenti… e la sua esistenza (o forse dovremmo dire inesistenza) è dovuta a un accumulo di razionalità che fa sì che egli faccia ogni cosa esattamente come dovrebbe essere fatta: maniacalmente ligio ai suoi doveri, non è solo valoroso in battaglia come si vuole a un buon cavaliere, ma compie con precisione matematica anche le mansioni burocratiche, come sovrintendere alla distribuzione del rancio o seppellire i cadaveri. Egli sa perfettamente come vada eseguita ogni minima cosa e rimprovera continuamente le mancanze altrui. Anche se non mangia, dato che non ha corpo, adempie al cerimoniale dei banchetti di Carlo Magno con la stessa cura meticolosa che esplica in ogni altro cerimoniale.
Sono gli anni dell’industrializzazione e del boom economico, gli anni in cui è la borghesia a dettare le regole del buon comportamento:
Dall’uomo primitivo che, essendo tutt’uno con l’universo, poteva esser detto ancora inesistente perché indifferenziato dalla materia organica, siamo lentamente arrivati all’uomo artificiale che, essendo tutt’uno coi prodotti e con le situazioni, è inesistente perché non fa più attrito con nulla, non ha più rapporto con ciò che (natura o storia) gli sta intorno, ma solo astrattamente “funziona”.
(Postfazione ai Nostri Antenati, p. 415 Oscar Mondadori).
L’uomo non conosce più il suo vero io, perché non ha più rapporto con le cose che lo circondano, e tantomeno con se stesso. È costretto a muoversi in un mondo dove ogni sua azione è già prestabilita da un codice di regole e comportamenti, dove egli non è più un individuo, ma funzione di se stesso.
Mi sono concentrata su Agilulfo, ma Il cavaliere inesistente racconta la storia di altri personaggi: Rambaldo, Bradamante, Torrismondo, Sofronia, sì, proprio quelli delle Chanson de geste, visti in un ottica dissacrata e un po’ particolare. Molti sarebbero i temi di cui discutere, come la presenza dell’io nella narrazione, la “giravolta narrativa” del finale… Magari un’altra volta 😉