Italo Calvino e Il cavaliere inesistente a 30 anni dalla morte – P2

Italo Calvino, 30 anni dalla morte Il cavaliere inesistenteCome dicevo nel post di ieri, in cui trovate un’introduzione al Cavaliere inesistente e ai Nostri antenati, ho voluto ricordare Italo Calvino a trent’anni dalla sua morte parlando di un libro che adoro e che mi ha avvicinato, quando ancora ero bambina, a uno dei più grandi scrittori mai esistiti (ma non dimentichiamoci che fu anche il responsabile dell’Ufficio Stampa della casa editrice Einaudi).

All’origine di ogni storia di Calvino c’è un’immagine che gli gira per la testa, e che solo scrivendo si sviluppa in una storia. “Sono le immagini stesse che sviluppano le loro potenzialità implicite, il racconto che esse portano con sé”. Man mano che scrive la storia però, è la parola scritta a prendere le redini, fino a diventare sempre più decisiva: “sarà la scrittura a guidare il racconto nella direzione in cui l’espressione verbale scorre più felicemente, e all’immaginazione visuale non resta che tenerle dietro” (Italo Calvino, Lezioni americane, Oscar Mondadori, Milano 2011, pp. 90-91).

L’immagine che dà vita al Cavaliere inesistente, un’armatura vuota che cammina e agisce con grande razionalità, si identifica a poco a poco durante la stesura della storia con un nodo di riflessioni che gli turbinano in testa: Calvino si trova in un periodo storico in cui l’individualità è negata, l’uomo è ridotto a “un’astratta somma di comportamenti prestabiliti”, proprio come Agilulfo, a cui sono negati la dimensione corporale, le passioni, gli istinti, i sentimenti… e la sua esistenza (o forse dovremmo dire inesistenza) è dovuta a un accumulo di razionalità che fa sì che egli faccia ogni cosa esattamente come dovrebbe essere fatta: maniacalmente ligio ai suoi doveri, non è solo valoroso in battaglia come si vuole a un buon cavaliere, ma compie con precisione matematica anche le mansioni burocratiche, come sovrintendere alla distribuzione del rancio o seppellire i cadaveri. Egli sa perfettamente come vada eseguita ogni minima cosa e rimprovera continuamente le mancanze altrui. Anche se non mangia, dato che non ha corpo, adempie al cerimoniale dei banchetti di Carlo Magno con la stessa cura meticolosa che esplica in ogni altro cerimoniale.

Sono gli anni dell’industrializzazione e del boom economico, gli anni in cui è la borghesia a dettare le regole del buon comportamento:

Dall’uomo primitivo che, essendo tutt’uno con l’universo, poteva esser detto ancora inesistente perché indifferenziato dalla materia organica, siamo lentamente arrivati all’uomo artificiale che, essendo tutt’uno coi prodotti e con le situazioni, è inesistente perché non fa più attrito con nulla, non ha più rapporto con ciò che (natura o storia) gli sta intorno, ma solo astrattamente “funziona”.

(Postfazione ai Nostri Antenati, p. 415 Oscar Mondadori).

L’uomo non conosce più il suo vero io, perché non ha più rapporto con le cose che lo circondano, e tantomeno con se stesso. È costretto a muoversi in un mondo dove ogni sua azione è già prestabilita da un codice di regole e comportamenti, dove egli non è più un individuo, ma funzione di se stesso.

Mi sono concentrata su Agilulfo, ma Il cavaliere inesistente racconta la storia di altri personaggi: Rambaldo, Bradamante, Torrismondo, Sofronia, sì, proprio quelli delle Chanson de geste, visti in un ottica dissacrata e un po’ particolare. Molti sarebbero i temi di cui discutere, come la presenza dell’io nella narrazione, la “giravolta narrativa” del finale… Magari un’altra volta 😉

Italo Calvino e Il cavaliere inesiste a 30 anni dalla morte #Calvino30

Italo Calvino - 30 anni dalla morte

Trent’anni fa nella notte tra il 18 e il 19 settembre Italo Calvino moriva a Siena a causa di un ictus. Per ricordare uno dei più grandi scrittori italiani, che non ho mai nascosto essere tra i miei preferiti in assoluto, ho pensato di focalizzarmi su Il cavaliere inesistente, che insieme a Il visconte dimezzato Il barone rampante (raccolti insieme ne I nostri antenati) è l’opera che mi ha avvicinato a Calvino in principio.

I nostri antenati sono le prime tre storie fantastiche che ha scritto (seguiranno poi Le città invisibili, Marcovaldo, Le cosmicomiche, Ti con zero, Se una notte d’inverno un viaggiatore…). La sua carriera incomincia infatti con una spinta propulsiva verso il romanzo neorealistico (ricorderete senz’altro Il sentiero dei nidi di ragno), che però gli viene meno:

Così provai a scrivere altri romanzi neorealistici, su temi della vita popolare di quegli anni, ma non riuscivano bene, e li lasciavo manoscritti nel cassetto. […]. Era la musica delle cose che era cambiata: la vita sbandata del periodo partigiano e del dopoguerra s’allontanava nel tempo […]. La realtà entrava in binari diversi, esteriormente più normali, diventava istituzionale; le classi popolari era difficile vederle se non attraverso le loro istituzioni e anch’io ero entrato a far parte d’una categoria regolare: quella del personale intellettuale delle grandi città, in abito grigio e camicia bianca. […]. Ed ecco che scrivendo una storia completamente fantastica, mi trovavo senz’accorgermene a esprimere  non solo la sofferenza di quel particolare momento ma anche la spinta a uscirne; cioè non accettavo passivamente la realtà negativa ma riuscivo a rimettervi movimento, la spaccherai, la crudezza, l’economia di stile, l’ottimismo spietato che erano stati della letteratura della Resistenza”.

Il titolo I nostri antenati sottolinea il legame di queste vicende, seppur così irreali, con la realtà presente: un visconte tagliato a metà, un barone che vive sugli alberi e un cavaliere inesistente tutto potrebbero essere fuorché nostri antenati, eppure come noi sono coinvolti in un’ostinata ricerca di sé e in un arduo confronto con il mondo.

Questi nobili da favola vivono rapporti inconsueti con la realtà, attraverso i quali Calvino intende rappresentare allegoricamente determinati aspetti della condizione umana. Nel Visconte dimezzato la scissione di cui l’uomo contemporaneo soffre: Medardo ritorna in patria dopo una crociata diviso in due parti da una palla di cannone, il Gramo e il Buono. Ognuna delle due parti agisce in maniera indipendente in maniera del tutto erronea, finché non vengono ricucite, riportando Medardo alla normalità di ogni uomo, fatta della commistione di bene e male.

Cosimo, “il barone rampante”, sceglie di trascorrere la sua vita sugli alberi senza più mettere piede a terra, dichiarando che  “chi vuole guardare bene la terra deve tenersi alla distanza necessaria”. Siamo di fronte a un alter ego di Calvino: l’intellettuale che sceglie la strada della separazione dal mondo, per poterlo comprendere meglio.

Ed eccoci arrivati al nostro Agilulfo, di professione cavaliere inesistente, armatura priva di corpo tenuta in vita da una concentrazione di pensiero e razionalità, allegoria della vita vuota, fatta di un succedersi di gesti convenzionali, quasi artificiali. Siamo nel periodo in cui la concezione di Calvino sulla funzione dell’intellettuale si incupisce nel pessimismo: c’è ancora posto per l’intellettuale che è salito sugli alberi per guardare meglio il mondo? Si può vivere di sola razionalità? La risposta è alla fine del romanzo: Agilulfo si dissolve nel nulla.

L’atmosfera magico-fantastica in cui Calvino immerge le sue opere è ben lungi da essere estranea alla realtà, al contrario presenta continui riferimenti al mondo contemporaneo, ai problemi ideologici e agli interrogativi esistenziali di un uomo che si sente alienato. L’evasione fiabesca non è un rifugio del mero fantasticare per aggirare o evadere la realtà, ma è la volontà di rappresentarla attraverso connotati allegorico-simbolici.

Mi accorgo di averla fatta troppo lunga e di aver solo introdotto Il cavaliere inesistente! Vedete cosa succede quando parlo di Calvino?? Direi che per oggi chiudo qui per non appesantirvi, e magari ne riparliamo domani. 😉

Il caso della storia di Sherlock Holmes scoperta recentemente in una soffitta in Scozia: è davvero autentica?

Shelock Holmes, foto di Uno, nessuno e centomila libri Shelock Holmes, foto di Uno, nessuno e centomila libri Shelock Holmes, foto di Uno, nessuno e centomila libri Shelock Holmes, foto di Uno, nessuno e centomila libri

Dalla scorsa settimana, fan di Sherlock Holmes da tutto il mondo sono in visibilio per la scoperta di un presunto episodio dimenticato del detective più famoso di sempre, rinvenuto in Scozia nella soffitta di Walter Elliot, un signore ottantenne esperto di storia locale. Il titolo del romanzo è Sherlock Holmes: Discovering the Border Burghs and, by deduction, the Brig Bazaar.

Continua a leggere qui: http://paroleacolori.com/la-nuova-avventura-di-sherlock-holmes-non-e-opera-di-conan-doyle/

Pierfrancesco Favino in Servo per due

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Trama

Rimini degli anni ’30, in pieno regime fascista. Pippo, moderno Arlecchino, è a servizio di un padrone, Rocco, che in realtà è morto, ma sua sorella gemella Rachele si finge lui per ottenere dei soldi da un gentiluomo e poter scappare con il fidanzato Ludovico. Pippo non guadagna abbastanza soldi per mangiare come si deve (è ossessionato dal cibo per tutto il primo atto). Così, quando per caso un altro signore richiede i suoi servizi, che altro non è che Ludovico, deve barcamenarsi a essere servo di due diversi padroni, senza far sapere a uno dell’altro… Non mancheranno comici malintesi!

Informazioni e curiosità.

Adattamento di One man, two guvnors del commediografo inglese Richard Bean, top di risate da tre anni a Londra, a sua volta adattamento di Il servitore di due padroni di Carlo Goldoni, meglio noto come Arlecchino servitore di due padroni, scritto nel 1745.

La regia è di Favino e Paolo Sassanelli, ma hanno collaborato all’adattamento italiano anche Marit Nissen e Simonetta Solden.

Pierfrancesco Favino è un attore italiano che apprezzo molto, soprattutto perché è uno dei pochi che è riuscito ad avere delle parti importanti nel cinema americano (come Angeli e demoni World War Z). Con questa interpretazione ha vinto il premio Miglior Protagonista “Le Maschere del Teatro Italiano 2014“.

 Lo spettacolo è accompagnato dalla musica dal vivo, soprattutto per permettere alla scenografia (davvero bellissima) di mutare. Le canzoni sono quelle dell’Italia dei primi decenni del 900, eseguite con maestria dall’orchestra e accompagnate da balletti e coreografie degli attori.

«Penso che il miracolo cui avevo assistito a Londra si sia ripetuto anche da noi», ha dichiarato Favino in un’intervista per il Corriere: «Lo spettacolo è fatto di materiali nostri: lazzi, frizzi, cadute dalle scale, ci allacciamo alle radici del varietà e dell’avanspettacolo, eredi a loro volta della commedia dell’arte e precursori di quella cinematografica all’italiana».

Recensione

Appena finito lo spettacolo il mio pensiero più immediato è stato: decisamente troppo lungo (quasi tre ore). Però nessun altro che io abbia sentito sembra aver avuto il desiderio che finisse un pochino prima, anzi, tutti se lo sono goduto con grande gusto. C’è da dire che malauguratamente mi trovavo seduta nella seconda fila del palchetto su quegli alti scranni che infastidiscono ogni rilassato modo di stare seduta (dato che non arrivo con i piedi per terra), e che stavo covando una brutta influenza (che oggi mentre scrivo mi godo a pieno tra brividi di febbre e starnazzate di naso nel fazzoletto) che mi faceva dolere tutte le ossa. Quindi potrei non essere del tutto attendibile su questo punto.
La commedia è veramente esilarante, ma le risate più di gusto sono state nei momenti di improvvisazione di Favino, quando chiedeva al pubblico di partecipare. C’è stato anche un fantastico momento in cui uno spettatore ha offerto a Favino-Pippo, che si crucciava per avere qualcosa da mangiare, un pacco di Tuc, che spero non fosse neanche lontanamente studiato perché è stato davvero un momento bellissimo, da morire dalle risate.
Insomma, per la capacità di improvvisazione di Favino, 10+. Stesso voto all’intero cast di attori, veramente bravissimi, in particolar modo Stefano Pesce nella parte di Spiridione (ma chi l’ha visto nella serata prima della mia mi dice che in quello spettacolo si chiamava Fulmineo).
Abituata a un Favino barbuto in ruoli “più tenebrosi” sono rimasta favorevolmente colpita da questa sua interpretazione: il personaggio, Pippo, è un moderno arlecchino, comicamente poveraccio e un po’ tonto. Questo spezza una lancia in favore della sua bravura, Favino riesce ad eccellere anche in ruoli che escono dal suo più comune stereotipo.
Davvero notevoli anche la scenografia e l’accompagnamento musicale, con canzoni dell’Italia dei primi decenni del secolo scorso, come Baciami bambina, Ma le gambe, Mamma mi ci vuole un fidanzato.
Per chi ancora deve vederlo: non aspettatevi Goldoni, perché appunto è un rifacimento di un rifacimento di Goldoni, trasmutato in epoca moderna. Eppure Goldoni centra, come canovaccio su cui la commedia è basata, come base di partenza. E il risultato è ottimo.

Stefano Accorsi a teatro in un classico della letteratura italiana: il Decamerone di messer Boccaccio

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Dopo il successo dell'”Orlando Furioso”, la coppia Baliani-Accorsi È ritornata con il “Decamerone, vizi, virtù, passioni”.

Il cast è formato da Salvatore Arena, Silvia Briozzo, Fonte Fantasia, Mariano Nieddu, Naike Anna Silipo.

Lo spettacolo si apre con Accorsi, che nel ruolo di maestro della compagnia itinerante di artisti che portano in scena le novelle del Decameron, incomincia a leggere l’incipit dell’opera del Boccaccio, per poi interrompersi e spiegare che la compagnia ha deciso di modernizzare l’espressione in modo da facilitarne la comprensione. Devo dire che è stato un lavoro veramente ben fatto, perché si è alleggerita la fruizione senza perderne l’essenza, la patina di antichità.

«Tradire per non far morire la tradizione» è il modo, secondo il regista Marco Baliani, di rapportarsi con la lingua dei grandi autori italiani per portarla in scena, così come lui e Stefano Accorsi avevano già fatto con l’Orlando Furioso con grande successo, successo ampiamente replicato con il “Decamerone”. Quest’anno sono stata spettatrice del Don Giovanni di Alessandro Preziosi e poi del Decameron di Baliani-Accorsi, e devo riconoscere quanto il teatro sia un tramite felice per la letteratura, rendola viva, di più immediata fruizione e allo stesso tempo riavvicinandoci all’opera originale. Chi, dopo lo spettacolo, non ha provato il desiderio di rileggersi alcune novelle del buon Boccaccio?

«È un’operazione impegnativa» ha confessato Accorsi in un’intervista con il “Corriere Adriatico”,  «l’adattamento del testo alla scena ha richiesto mesi di lavoro, soprattutto per semplificare la sintassi del periodo, e rendere la lingua, senza sacrificarne il lessico, più teatrale. Il periodo di Boccaccio è sempre troppo complesso e pieno di incisi. Modernizzarlo sarebbe uno scempio, ma non si presta per il teatro. D’altra parte ci piaceva che un classico di sette secoli fa risultasse, pur datato, ancora bellissimo».

Il progetto parte dall’intento di far conoscere il testo al grande pubblico, come afferma Accorsi: «C’è la volontà di restituire al pubblico la bellezza e la forza di questi tesori da riscoprire. Questo testo probabilmente era letto in pubblico, con una dimensione più sociale della narrazione, che si è un po’ persa. E poi nel Decameron Il rito del racconto è fondante. È importante recuperare questi classici, farli uscire dalla pagina: comporta l’adattamento, il montaggio, un’operazione di drammaturgia che stimola come un lavoro di ricerca».

Accorsi e gli altri cinque attori (sono tre uomini e tre donne) impersonano una compagnia itineranti di teatranti che mettono in scena sette delle cento novelle del Decamerone, selezionate per sottolineare la portata ancora attuale della letteratura di Boccaccio. Infatti, come nel Decameron i giovani si rifugiano in campagna e si raccontano le novelle per sfuggire alla peste che sta decimando Firenze, così ora c’è una nuova pestilenza, che ha invaso la nostra società in preda a corruzione e immoralità.

«Abbiamo scelto di raccontare alcune novelle del Decamerone di Boccaccio perché oggi ad essere appestato è il nostro vivere civile. Percepiamo i miasmi mortiferi, le corruzioni, gli inquinamenti, le mafie, l’impudicizia e l’impudenza dei potenti, la menzogna, lo sfruttamento dei più deboli, il malaffare. Perché anche se le storie sembrano buffe, quegli amorazzi triviali, quelle strafottenti invenzioni che muovono al riso e allo sberleffo, mostrano poi, sotto sotto, il mistero della vita stessa o quell’amarezza lucida che risveglia di colpo la coscienza. Potremmo così scoprire che il re è nudo, e che per liberarci dall’appestamento, dobbiamo partire dalle nostre fragilità e debolezze, riconoscerle e riderci sopra, magari digrignando i denti» dice Marco Baliani.

Infatti gli attori tra una novella e l’altra si interrogano sulla morale nascosta, rapportata ai giorni nostri, discutendo tra di loro per mettere in campo diversi pareri.

Lo spettacolo è divertente, ti rapisce dall’inizio alla fine. Anche l’italiano, seppur “antiquato” colpisce nel segno, riuscendo perfettamente nell’intento di essere comico. Mi è piaciuta molto la trovata della compagnia itinerante di attori che viaggiano sul loro furgoncino, che diviene magistralmente set di ogni novella con qualche piccola trasformazione.
Tra le novelle rappresentate non poteva mancare il tema della corruzione degli uomini e donne di Chiesa, che ha tanto spazio in tutto il Decamerone. La prima novella rappresenta la presa in giro della dabbenaggine degli uomini di chiesa pronti a facili santificazioni, tanto da farsi raggirare e ingannare da un falso frate. Altro tema che scorre per tutto il Decameron è quello della debolezza degli stimoli della carne, che troviamo per esempio anche nella novella delle  suore che si spartiscono il giardiniere muto. Novella tragica è invece quella di Tancredi e Ghismunda. Sorpresa dal padre ad amare Tancredi, un umile valletto ma di animo più nobile di chi lo è per nascita, non si pente e non si piega, sostenendo con forza le ragioni dell’amore fino al suicidio.
«Dopo Ariosto e Boccaccio, il prossimo anno lavoreremo su Machiavelli» ha detto Accorsi. Non mancheremo.

Conan Doyle in “The best of Sherlock Holmes” della prestigiosa Franklin Library

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The best of Sherlock Holmes, nella bellissima edizione illustrata della Franklin Library, mi è stato regalato per Natale insieme a Shakespeare’s Histories, che trovate in questo post, insieme a una storia della casa editrice, che ha prodotto meravigliosi volumi pensati per i collezionisti fino al 2000.

È, come l’altro, un bellissimo volume rilegato in pelle vera, con segnalibro in seta cucito nel nervo. Le illustrazioni all’interno del volume sono opera di Ben F. Stahl.

Pubblicato nel 1977, The best of Sherlock Holmes fa parte della collana Collected Stories of the World’s Greatest Writers, che raccoglie 100 volumi rilegati in vera pelle, pubblicati tra il 1977 e il 1985. 

Si tratta di una collezione dei tesori della letteratura, le migliori avventure di Sherlock Holmes appunto, I viaggi di Gulliver1984 di George Orwell e tanti altri, di cui vi riporto l’elenco completo:

Notes from Underground, The Gambler, and Poor People by Fyodor Dostoevsky
28 Stories of F. Scott Fitzgerald
Wessex Tales by Thomas Hardy
27 Collected Stories of Katherine Anne Porter
Kiss Me Again, Stranger by Daphne du Maurier
The Time Machine, The Invisible Man, and The War of the Worlds by H. G. Wells
One Basket by Edna Ferber
Seven Gothic Tales of Isak Dinesen
Animal Farm and 1984 by George Orwell
The Cabala, The Bridge of San Luis Rey, and The Woman of Andros by Thornton Wilder
Mr. Moto’s Three Aces by John P. Marquand
The Collected Stories of Franz Kafka
Sermons and Soda-Water by John O’Hara
The First Forty-Nine Stories by Ernest Hemingway
Dubliners by James Joyce
Tortilla Flat, Of Mice and Men, Cannery Row by John Steinbeck
Uncle Remus by Joel Chandler Harris
The Apple Tree and Other Tales by John Galsworthy
Stories From the Decameron by Giovanni Boccaccio
Pigeon Feathers and Other Stories by John Updike
The Complete Stories of Flannery O’Connor
Moon Lake and 12 Other Stories by Eudora Welty
Stories of Five Decades by Hermann Hesse
35 Stories by Nathaniel Hawthorne
17 Stories by Rudyard Kipling
Three Tales by Gustave Flaubert
22 Stories by Edith Wharton
38 Stories by SakiH. H. Munro
Three Exemplary Novels by Miguel de Cervantes
The Man That Corrupted Hadleyburg and 18 Other Stories by Mark Twain
The New Arabian Nights by Robert Louis Stevenson
21 Collected Short Stories by Aldous Huxley
Nabokov’s Dozen by Vladimir Nabokov
13 Stories by Sinclair Lewis
Seven Tales by Henry James
The Country of the Pointed Firs and 4 Stories by Sarah Orne Jewett
Tales of the South Pacific by James A. Michener
14 Selected Stories by W. Somerset Maugham
The Ranger and 3 Other Stories by Zane Grey
Breakfast at Tiffany’s and Three Stories by Truman Capote
30 Stories by Guy de Maupassant
The Kreutzer Sonata and 10 Other Stories by Leo Tolstoy
The Queen of Spades and 3+ Other Tales by Alexander Pushkin
7 Stories by Booth Tarkington
The Continental Op by Dashiell Hammett
222 Fables, Fully Indexed by Aesop
Peasants and 8 Other StoriesAnton Chekhov
The Troll Garden & Obscure Destinies by Willa Cather
74 Fairy Tales by Hans Christian Andersen
Thirteen O’Clock – Stories of Several Worlds by Stephen Vincent Benét
73 Short Stories by Katherine Mansfield
The Best of Sherlock Holmes by Sir Arthur Conan Doyle
Three Christmas Books by Charles Dickens
Heart of Darkness and 10 Other Tales by Joseph Conrad
Round Up by Ring Lardner
Tales of All Countries and 8 Other Stories by Anthony Trollope
16 California Stories by Bret Harte
25 Collected Stories by Dylan Thomas
The Magic Barrel and Idiots First by Bernard Malamud
From Death to Morning by Thomas Wolfe
5 Stories by Thomas Mann
Here Lies. 24 Collected Stories by Dorothy Parker
Four Short Novels by D. H. Lawrence
First Love and 7 Other Tales by Ivan Turgenev
100 Fairy Tales by The Brothers Grimm
Gulliver’s Travels by Jonathan Swift
45 Selected Stories by O. Henry
The Wall and 5 Other Stories by Jean-Paul Sartre
Exile and the Kingdom by Albert Camus
Taras Bulba and 8 Other Tales by Nikolai Gogol
These Thirteen by William Faulkner
The Thurber Carnival by James Thurber
Guys and Dolls by Damon Runyon
The Sketch Book of Geoffrey Crayon Gent. by Washington Irving
8 Collected Short Stories by Carson McCullers
Ficciones by Jorge Luis Borges
Canterbury Tales by Geoffrey Chaucer
Winesburg, Ohio by Sherwood Anderson
4 Tales by E. T. A. Hoffmann
This Gun for Hire, The Confidential Agent, The Ministry of Fear by Graham Greene
18 Stories by Heinrich Böll
27 Stories by Erskine Caldwell
22 Stories by Luigi Pirandello
A Descent into the Maelstrom and 23 Other Tales by Edgar Allan Poe
Gimpel the Fool and 10 Other Stories by Isaac Bashevis Singer
32 Droll Stories by Honoré de Balzac
Maggie: A Girl of the Streets and 22 Selected Stories by Stephen Crane
Welcome to the Monkey House by Kurt Vonnegut
Laughing to Keep from Crying and 25 Jesse Semple Stories by Langston Hughes
The Best (14) Short Stories by Theodore Dreiser
In the Midst of Life – Tales of Soldiers and Civilians by Ambrose Bierce
Stories by Sidonie Gabrielle Colette
16 Tales of the Northland by Jack London
Stories & Fairy Tales by Oscar Wilde
Candide and Zadig by François Marie Arouet Voltaire
Alice’s Adventures in Wonderland and Through the Looking-Glass by Lewis Carroll
Billy Budd, Sailor and The Piazza Tales by Herman Melville
Scenes of Clerical Life by George Eliot
36 Stories by Alexandre Dumas
Around the World in Eighty Days & From the Earth to the Moon by Jules Verne

 

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Sir Arthur Conan Doyle, “Great Cases of Sherlock Holmes”, Mystery Masterpieces, Franklin Library.

La Franklin Library ha pubblicato un’altra edizione delle avventure di Sherlock Holmes, Great Cases of Sherlock Holmes, nella collana “Mystery Masterpieces”, che raccoglie i maestri del giallo, tra cui anche Agatha Christie.

Arriva in Italia il musical made in Broadway “Beauty and the Beast”

Beauty and the Beast, il musical made in Broadway ora in Italia

Beauty and the Beast, il musical made in Broadway ispirato al cartons Disney La Bella e la Bestia arriva oggi in Italia al teatro Rossetti di Trieste e il 10 Dicembre agli Arcimboldi di Milano.

Beauty and the Beast, il musical made in Broadway ora in Italia

Non era mai accaduto prima che nel nostro Paese andasse in scena uno spettacolo interamente originale, con lo stesso cast, la stessa scenografia, i costumi e persino la lingua: il musical sarà interamente in inglese, con sottotitoli sugli schermi.

L’idea di organizzare un tour dello spettacolo integralmente originale è nata per festeggiare i vent’anni dal debutto del musical, che fin da subito ha ottenuto un successo clamoroso tanto che è rimasto in programma sul palco americano per tredici anni, spostandosi anche all’estero, in 22 Paesi (e 8 lingue). Beauty and the Beast era già stato anche in Italia, in lingua italiana e con il titolo tradotto nel nostro La Bella e la Bestia.

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Il musical ha vinto numerosi premi, tra cui il premio Olivier per il Miglior Musical a Londra, ed è il settimo show in durata nella storia di Broadway.

Il tour prevede, oltre all’Italia, Turchia, Abu Dhabi, Grecia, Filippine, Thailandia, Singapore, Indonesia, Macao. Il regista, Rob Roth, è lo stesso dal primo spettacolo, nel 1994, con il quale ha debuttato a teatro e per il quale ha ricevuto la nomination al premio Tony come migliore regista.

Anche la costumista, Ann Hould-Ward, è la stessa degli inizi, e ha vinto il premio Tony grazie al suo lavoro per Beauty and the Beast. In questi vent’anni ha realizzato ben 580 favolosi costumi.

A impersonare “la Bella” e “la Bestia” Hilary Maiberger e Darick Pead, che potete vedere cantare in questo video.

 

LA RECENSIONE: “IL SEGNO DI ZORRO”, IL LIBRO DI JOHNSTON MCCULLEY CHE DÀ INIZIO ALLA LEGGENDA

Johnston McCulley e Guy-Williams
Johnston McCulley che “insegna” la parte a Guy Williams.

Fin da bambina Zorro è sempre stato uno dei miei personaggi preferiti, tant’è che a carnevale, mentre le altre bambine si vestivano da fatina o da principessa, io invece indossavo fieramente un costume da Zorro, con tanto di baffi pitturati diligentemente con una matita nera dalla mia povera madre che scuoteva la testa a disagio di fronte a una figlia maschiaccio.
Il mese scorso ho ricominciato a vedere la serie tv degli anni ’60 con Guy Williams, così ho deciso di leggere anche il libro di Zorro, che non avevo mai letto. Mi sono imbattuta dapprima sul prequel di Isabelle Allende, Zorro. L’inizio della leggenda, di cui avevo già pubblicato la recensione.
Cercando poi il libro originale, il capostipite di tutta l’enorme massa di rivisitazioni cinematografiche e televisive , mi sono accorta con vergogna che ormai era introvabile in italiano, ma si trova invece facilmente in lingua originale, con il titolo The mark of Zorro.

The curse of Capistrano di Johnston McCulley, l’edizione originale del 1919.

McCulley- the mark of zorroLa prima vera storia di Zorro, scritta da Johnston McCulley, venne pubblicata nel 1919 a puntate su una rivista, All-story weekly, con il titolo originale di The curse of Capistrano. Divenne subito la sceneggiatura di un film, prodotto da Douglas Fairbanks Sr, dal titolo The mark of Zorro, che fu poi rifatto nel 1940.
Quando la storia apparve in forma di libro per la prima volta, aveva già adottato il titolo del film.
L’ultima riproduzione cinematografica, The mask of Zorro, è una sorta di rifacimento di uno dei vari sequel che hanno seguito il film del 1940, e ha niente a che vedere con la storia originale.
Ma nell’immaginario collettivo la rappresentazione più nota è la serie televisiva Zorro prodotta nel 1960 sotto la supervisione di Walt Disney in persona, con Guy Williams, che continua tutt’ora ad essere trasmessa su Fox e sul canale della Disney.

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Locandina del film “The mark of Zorro” del 1940.

Recensione.

9780230029217.Cover.qxdSebbene gli eroi mascherati dalla doppia identità siano popolari da settant’anni a questa parte (Superman, Spiderman, Batman…) negli anni in cui fu scritto Zorro erano ancora pressoché sconosciuti.
L’idea che sta dietro al personaggio di Zorro era quella di un Robin Hood californiano, che si battesse per i poveri, in questo caso rappresentati dagli indios, e che per di più si nascondesse tra quella che era definita “l’aristocrazia spagnola” della California.
Don Diego De La Vega è il rampollo dalla linea sanguinea più prestigiosa di Los Angeles, peccato che sia così indolente, ipocondriaco, pigro e senza vita, tanto che non è neppure in grado di corteggiare Lolita Pulido, la bellissima dama che vorrebbe fare sua moglie. Il suo alter ego, Zorro invece, è temerario, esperto nell’arte della spada e fervente di amore per Lolita, la quale lo ricambia con ardore. Nessuno potrebbe immaginare che i due siano la stessa persona.
Mi ha colpito favorevolmente che ne Il segno di Zorro non si riveli la vera identità dell’eroe mascherato fino alle ultime righe, quando si toglie la maschera di fronte a una folla attonita nel riconoscere in lui i lineamenti di Diego De La Vega. Effettivamente, non doveva stupirmi così tanto che “finalmente” al lettore / spettatore non venisse rivelata fin dall’inizio la vera identità di Zorro, dato che è da qui che parte la storia.
Johnston McCulley The Mark of Zorro DellNel libro di McCulley troviamo gli avventurosi inseguimenti che tanto conosciamo, ma i combattimenti sono resi in maniera ancora più rocambolesca. Ogni scontro di spada viene narrato dettagliatamente dall’autore, con grande piacere dei lettori uomini, mentre io ero più attratta dalle scene in cui Lolita promette eterno amore a Zorro.
Il sergente Garcia, che noi tutti conosciamo grazie alla serie Disney, si chiama invece Gonzales, pur sempre ciccione e amante del vino, ma per nulla stupido e bonaccione come la sua versione televisiva, al contrario è furbo e violento. Bernardo, il servo fedele che ha tanto peso sia nella serie Disney che nel romanzo della Allende, compare invece qui in un solo fuggevole accenno.
Nonostante sia stato scritto ormai quasi cento anni fa, ho trovato Il segno di Zorro un romanzo moderno in tutto e per tutto, dallo stile alla trama. È una narrazione avvincente, a tratti divertente (quando Zorro si prende gioco del sergente Gonzales per esempio) che scorre agilmente. La consiglio vivamente a tutti quelli che sono curiosi di conoscere la genesi del personaggio tanto amato.

Titolo originale: The mark of Zorro
Pagine: 204
Prezzo: 2.89 euro
Formato: Kindle.
Giudizio complessivo: ★★★★

Alessandro Preziosi è il Don Giovanni, nella commedia tragica di Molière

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Si è aperta lo scorso weekend nel Teatro della Fortuna di Fano la stagione teatrale del Don Giovanni di Molière, diretto e interpretato dall’attore Alessandro Preziosi, con Nando Paone nei panni di Sganarello, il servitore del Don Giovanni.

La leggenda del Don Giovanni nei secoli.

Quello di Don Giovanni è un mito che noi tutti conosciamo, tanto che l’espressione “quello è un Don Giovanni”, per indicare i donnaioli senza cuore, è ormai di uso comune. Dal 1630, quando compare per la prima volta nella commedia di Tirso de Molina L’ingannatore di Siviglia e il convitato di pietra, a oggi si contano più di quattromila riscritture, di cui la più celebre è quella dell’ opera lirica Il dissoluto punito ossia il Don Giovanni, composta da Mozart nel 1787, che ha consacrato il Don Giovanni per sempre alla fama. Il personaggio del Don Giovanni è stato poi riutilizzato da vari autori nel teatro e nella letteratura: George Gordon Byron, Aleksandr Sergeevič Puškin, José Zorrilla, José de Espronceda, José Saramago… e naturalmente Molière, http://it.wikipedia.org/wiki/Molière da cui è tratta la rappresentazione di Preziosi. Il Don Giovanni o Il convitato di pietra di Molière è una commedia tragica in prosa in cinque atti. Viene rappresentata per la prima volta a Palais-Royal il 15 febbraio 1665. Don Giovanni passa la vita a sedurre donne, nobili, sposate o anche suore, come Donna Elvira. L’elenco di quelle da lui conquistate nel girare il mondo è conservato da Leporello (il servitore di Don Giovanni nell’opera di Mozart) sul suo catalogo: in Italia 640, in Alemagna (Germania) 231, in Francia100, in Turchia 91 e in Spagna 1003.

Il Don Giovanni di Molière, diretto da Alessandro Preziosi.

La commedia del Molière si apre con un dialogo tra Sganarello, il personaggio che ha la funzione di far ridere lo spettatore con la sua vigliaccheria e le sue battute sulla vita dissoluta del suo padrone, e il servo di Donna Elvira, che apprendiamo essere l’ultima amante di Don Giovanni, spinta da questi a lasciare il convento per vivere un amore incestuoso. Questi chiede ragione a Sganarello, per conto della sua padrona, sulla partenza improvvisa del suo padrone, che ha abbandonato Donna Elvira senza una spiegazione. Sganarello si lascia andare, confidandosi e confessando chi realmente è Don Giovanni: un padrone perfido e cinico, che prova diletto nel conquistare le donne e consumare i piaceri carnali, per poi abbandonarle con disprezzo. A questo punto entra in scena Don Giovanni, e Sganarello è costretto a interrompersi e a dissimulare ciò che stava dicendo. Don Giovanni recita un lungo monologo sul suo stile di vita: il piacere della conquista delle donne, paragonandolo alla conquista dei re di nuove terre, che poi perdono ogni fascino dopo la consumazione del primo atto sessuale. E così la commedia procede, con i piani del Don Giovanni di conquistare una donna appena fidanzata, addirittura millantando di rapirla se nessun altro sistema darà i suoi frutti, con la promessa di sposare due contadine e con lo scontro con i fratelli di Donna Elvira, che chiedono a Don Giovanni, senza successo di sposare la sorella per lavare l’onta del disonore sulla loro famiglia. Don Giovanni non ha rispetto per nulla, nemmeno della tomba del commendatore che ha ucciso in duello qualche mese prima, difendendo l’onore della figlia. Vi si reca infatti, e prendendosi beffe di lui domanda alla sua statua se vuole recarsi a cena a casa sua l’indomani. La statua, miracolosamente, si anima e risponde che non mancherà. Il giorno successivo prima di cena Don Giovanni riceve la visita del padre. Preziosi stesso, in un monologo tragicissimo e reso in maniera sublime dall’attore, impersona entrambe le parti attraverso uno stratagemma: Don Giovanni sa già che cosa gli dirà il padre, è ciò che gli dice ogni volta, così imita le parole, il tono prima disperato e poi furente, piegandosi anche sulla schiena per mimare il fatto che il padre si appoggi a un bastone per camminare: Don Luigi ricorda ha a lungo desiderato e pregato il cielo per avere un figlio; figlio che adesso è solamente motivo della sua vergogna e del suo dolore. Poi giunge Donna Elvira, che lo supplica, in nome dei sentimenti che provò per lui in passato, di redimersi dal suo stile di vita scellerato e peccaminoso, salvandosi dall’imminente punizione celeste, che è sicura arriverà presto per lui. La cena viene finalmente servita, ma prima che Don Giovanni e Sganarello possano iniziare a mangiare, vengono interrotti da una terza visita: la statua del Commendatore, che gli intima anch’essa di pentirsi delle sue scelleratezze altrimenti lo attende una brutta fine. Don Giovanni continua a rifiutare, sardonico. L’indomani, però, Don Giovanni ostenta una totale redenzione. Ciò suscita commozione e felicità nel fedele Sganarello, il quale, però, viene subito colpito dalla doccia fredda dalla confessione del padrone: Don Giovanni confessa che la sua finta conversione altro non è che uno stratagemma utile ed una mossa politica. Ha deciso, infatti, di diventare un ipocrita per salvarsi la faccia. Elogiando l’ipocrisia, una maschera che serve a nascondere le proprie malefatte al mondo, la quale, secondo lui, offre meravigliosi vantaggi, tra i quali quello di non essere esposti al biasimo collettivo. Ma per lui ormai la sorte è segnata: morirà bruciando tra le fiamme dell’inferno. Questo finale, in cui Don Giovanni rifiuta di pentirsi anche di fronte alla statua parlante del Commendatore, evidenza dell’esistenza di Dio, al quale egli, cinico, non crede, è stato argomento delle dissertazioni filosofiche e artistiche di molti scrittori. La battuta finale, comunque, è di Sganarello, che disperato, all’inizio lo sembra per la morte del padrone, mentre in realtà lamenta il fatto che non è stato pagato. I due protagonisti, Preziosi e Paone, sono stati entrambi bravissimi, devo dire che Preziosi mi ha colpito decisamente di più a teatro che nella serie di Elisa di Rivombrosa. Complimenti a entrambi.  

Le lettere di Abelardo ed Eloisa, una storia d’amore finita in tragedia

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 Introduzione filologica.

Quella tramandataci tramite queste lettere, scritte in latino, è una storia che è stata tante volte narrata, ricostruita, romanzata e travisata da scrittori vari dal Medioevo ai nostri giorni.

La vicenda di Abelardo, filosofo, maestro e chierico e della sua discepola Eloisa è centro di dibattito e discussione da secoli, dato che causa problemi di natura storica, etica, religiosa e filologica. Infatti gli studiosi si dividono tra quelli che ritengono le lettere autentiche, e quelli che le ritengono un’invenzione letteraria.

Tra i motivi che inducono questi ultimi ad avvalorare la loro tesi, il fatto che gli atteggiamenti anticonformisti di Eloisa non si addicano alla concezione sessuale e peccaminosa che hanno in genere le donne del Medioevo. Ma come possiamo esserne sicuri, dato che ricostruiamo la morale medievale solo attraverso gli scritti letterari che sono giunti fino a noi?

La raccolta ci è pervenuta tramite 9 manoscritti del XIV secolo (quindi più di un secolo dopo le vicende narrate, che si collocano nel XII secolo), di cui uno apparteneva al Petrarca, quindi è presumibile che l’epistolario sia stato perlomeno rielaborato, anche assodando che le lettere siano autentiche.

La vicenda di Abelardo ed Eloisa.

Abelardo a 36 anni, dopo tanto studiare, aveva finalmente ottenuto una cattedra prestigiosa, quella di Notre Dame, quando viene travolto dalla passione amorosa per Eloisa che lo condusse alla catastrofe.

Eloisa, di vent’anni più giovane, era la nipote prediletta di Fulberto, canonico di Notre Dame. Lo zio aveva in grande cura la sua istruzione: al contrario della norma di quel periodo, in cui le donne non venivano affatto istruite, Eloisa conosceva il latino, il greco e l’ebraico, ed era dotta in letteratura. Scrive Abelardo nella lettera I, rivolta a un amico, a cui racconta le sue disavventure: «Ella, fisicamente tutt’altro che brutta, in quanto a sapienza era eccezionale, ed era divenuta tanto più lodata e famosa in tutto il regno quanto più è rara nelle donne una simile qualità, ossia la cultura letteraria».

Pur di potersi avvicinare alla fanciulla, Abelardo convinse Fulberto a ospitarlo in casa sua, con la scusa che lo studio non gli lasciasse il tempo di occuparsi di una casa. Fulberto in cambio gli chiese di istruire Eloisa, e Abelardo non poté credere alle sue orecchie per l’incredibile fortuna che aveva avuto: «(…) scongiurandomi ardentemente di occuparmi della fanciulla, facilitò il mio amore più di quanto avessi osato sperare. (…). Rimasi stupefatto che affidasse la tenera agnella al lupo famelico. (…) Col pretesto dello studio ci abbandonammo perdutamente all’amore, e proprio lo studio offriva quegli angoli segreti che la passione predilige. Aperti i libri, le parole si affannavano di più intorno ad argomenti d’amore che di studio, erano più numerosi i baci che le frasi, la mano correva più spesso al seno che ai libri. E ciò che si rifletteva nei nostri occhi era molto più spesso l’amore che non la pagina scritta oggetto della lezione. Per non suscitare sospetti la percuotevo spinto però dall’amore, non dal furore, dall’affetto non dall’ira, e queste percosse erano più soavi di qualsiasi balsamo. Il nostro desiderio non trascurò nessun aspetto dell’amore, ogni volta che la nostra passione poté inventare qualcosa di insolito, subito lo provammo, e quanto più eravamo inesperti in questi piaceri tanto più ardentemente ci dedicavamo ad essi e non ci stancavamo mai. Quanto più eravamo inesperti di quei giochi d’amore, tanto più insistevamo nel procurarci il piacere e non arrivavamo mai a stancarcene».

Ben presto Eloisa rimase incinta e Abelardo la rapì per portarla a partorire presso i suoi famigliari. Fulberto impazzì d’ira, finché Abelardo per placarlo non si offrì di sposare la nipote. Bisogna precisare che all’epoca chiunque volesse intraprendere una carriera di studi era legato alla Chiesa, e per questo non doveva sposarsi. Non solamente Abelardo non voleva mettere fine alla sua carriera, ma la stessa Eloisa era contraria al matrimonio, perché amava Abelardo più di se stessa e non voleva arrecargli danno in alcun modo. Il matrimonio avvenne quindi in segreto, e Abelardo subito allontanò Eloisa mandandola in convento. Ciò non poteva assolutamente essere sufficiente a placare la furia di Fulberto, che invece voleva un matrimonio riparatore a tutti gli effetti per riabilitare l’onore della nipote. Così fece assalire Abelardo mentre dormiva, e lo fece evirare.

Ciò mise fine per sempre all’amore e alla carriera di Abelardo, che si fece frate anch’egli.

Se riguardo alla veridicità dell’amore di Eloisa non ci sono dubbi, come dimostrano le sue lettere, – «Al mio signore, anzi padre, al mio sposo anzi fratello, la sua serva o piuttosto figlia, la sua sposa o meglio sorella (…) Ti ho amato di un amore sconfinato (…) mi è sempre stato più dolce il nome di amica e, se non ti scandalizzi, quello di amante o prostituta, il mio cuore non era con me, ma con te». O, ancora: «Oh, la più misera delle misere, la più infelice degli infelici! Per essere stata preferita da te a tutte le altre donne, sono salita al più alto grado, ma precipitando di lassù, ho sofferto, per te e per me insieme, la più crudele rovina!» – per quanto riguarda Abelardo sorge il dubbio che la sua fosse stata solo un’egoistica lussuria, spenta una volta zittito lo stimolo sessuale. Infatti Eloisa gli rimprovera di non averla più cercata da allora, di non averle mai scritto, e mentre le sue parole, a distanza di anni, sono ancora piene di appassionato amore, le risposte di Abelardo invece rimangono sempre su un piano religioso, e al massimo di affetto.

Titolo: Abelardo ed Eloisa. Lettere

A cura di: Nada Cappelletti Truci

Editore: Einaudi, NUE

Pagine: 408

Forma: copertina rigida in tela carta da zucchero con sovraccoperta bianca con bande rosse. Piccolo formato.